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LA FESTA DEI GIGLI: RITO E FOLCLORE NELLA FORZA DEI SEGNI

Mons. Don Ciro Miniero

Buonasera a tutti voi; permettetemi di salutare, innanzitutto, il presidente dell’Associazione Lylia, Elisabetta Nappo, che da diversi anni sta lavorando, molto seriamente, affinché la Festa dei Gigli di Barra ritrovi un filo conduttore: quel filo conduttore, purtroppo, smarrito nel tempo. Pure se con rammarico, è giusto prendere atto, che dagli anni ‘60 a oggi, c’è stato un lento ma continuo declino della nostra Festa, della nostra tradizione. I popoli vivono di tradizioni: esprimono in questo  modo la vita, gli ideali, le esperienze, ed è nel rito -nel nostro caso nella Festa- che possono distinguere una primigenia identità folclorico-culturale. Alla luce d’iniziative come quella di oggi, è incoraggiante verificare quante energie siano indirizzate verso l’ambizione di gettare nuove fondamenta per la riconquista di quest’identità; anche se ritengo ci vorrà ancora molto impegno da parte nostra, per vincere la battaglia. Sono contento di costatare quanto il mio contributo abbia peso in quest’impegno: però, è giusto sottolineare che il sentiero, solcato in questi due anni  dalle autorità ecclesiastiche barresi, abbia alle spalle, in realtà, l’esperienza e la forza d’animo del nostro Eminentissimo Cardinale Crescenzio Sepe e l’attenzione dei confratelli sacerdoti, poiché queste argomentazioni sono talvolta oggetto di dibattito e di confronto, durante i nostri incontri. E oggi, la mia presenza qui, ribadisce ulteriormente tale impegno.

Consentitemi poi di ringraziare - in questa sede-  le  nostre Istituzioni. Istituzioni che nel passaggio alle Municipalità possono essersi imbattute in un serio pericolo: sciupare delle opportunità significative per il rilancio di Barra, che nonostante abbia avuto un passato florido, oggi  risente, in modo contingente, delle difficoltà economiche e sociali soffocanti, purtroppo, la città di Napoli. La mia speranza, e penso la speranza di ognuno di noi, è che, in questa nuova fase politica, ci s’incammini verso un futuro più luminoso per il nostro quartiere. Anche se sono conscio della volontà e dell’intenzione dei nostri governanti locali a lavorare con veemenza, affinché ciò accada; e ne sono felice. Sacro e profano nel folclore dei Gigli: la Festa, i Santi e le tradizioni; dunque, questo l’argomento del nostro dibattito. È interessante analizzare come la tradizione barrese dei Gigli, secondo attendibili fonti storiche, sia collegata alla figura di Sant’Antonio da Padova, eppure, quelle stesse fonti hanno rilevato che,  in origine,  i Gigli, importati da Nola nel 1822, erano destinati a essere il dono di un’altra figura religiosa, che per il popolo barrese ha un’accezione del tutto speciale: Sant’Anna, la nostra Patrona. Senza entrare nel merito di discussioni storiche- folcloriche, è giusto rilevare una semplice osservazione: il destinatario della Festa dei Gigli di Barra  è sempre un Santo, perché? Prima di rispondere a questo interrogativo, io farei, però, un passo indietro.

Un passo indietro, a quella forza che accomuna tutti i popoli: quella forza animata dalla necessità di tramandare degli ideali. Gli ideali, di norma, sono tramandati con un linguaggio che tutti possono comprendere, e sin dall’antichità, quando gli uomini volevano esprimere condivisione, riconoscenza verso Dio utilizzavano dei segni, espressi finanche attraverso momenti di festa. Del resto, questo accade ancora oggi; infatti, se vogliamo manifestare il nostro ringraziamento a una persona, noi utilizziamo un dono: un fascio di fiori o una telefonata, per esempio, un segno insomma che abbia la capacità di “ringraziare”. Quindi, c’è sempre un segno, rilevante un’intenzione, che fa riferimento poi a un valore: l’amicizia, la famiglia, la fraternità universale. Vorrei soffermarmi un momento sull’omelia tenuta ieri da Mons. Vincenzo Pelvi, e in particolare sul valore della Bandiera Italiana, oggi purtroppo messa in discussione da diverse parti. Quella Bandiera che avvolgeva i feretri dei nostri caduti, i quali hanno reso omaggio fino alla fine, fino al sacrificio delle loro stesse vite, alla difesa dell’unità nazionale, alla difesa dell’Italia.

Forse, siamo dinanzi a dei concetti che non riusciamo a riconoscere nell’immediato, eppure, questi concetti esprimono degli ideali molto potenti, per i quali tantissimi uomini, sia in passato sia oggi, hanno sacrificato la loro esistenza. Già, gli ideali: ma cosa può riferirsi a un ideale? Sicuramente un segno concreto, che si esprime poi attraverso un’azione: quindi, un rito che evoca quell’ideale, e lo fa rivivere nell’azione. Tale meccanismo è palese fin dall’antichità: gesti dunque ripetitivi, trasmettenti  sensazioni, giacché è attraverso quella catena di gesti che noi riviviamo  un’esperienza non ancorata al passato, ma che invade la vita presente, il cuore. Chi di noi non compie gesti rituali nella propria esperienza personale e familiare? Già quando ci alziamo al mattino, e prepariamo il caffè, impostiamo un rito. Se per un qualsiasi motivo ci capita di essere lontano di casa, e magari abbiamo difficoltà a reperire il caffè napoletano, ci  sembra che la giornata non sia iniziata; eppure, nei fatti non è così. Certi aromi, odori, contribuiscono al bagaglio espressivo con cui ci riagganciamo alle esperienze concrete, poiché l’individuo ha bisogno di  relazionarsi con gli altri, di interagire in un insieme di rapporti, che poi fanno la storia: la storia di un popolo. Questo tipo di esperienza s’è riversato, in ugual modo, nell’ambito religioso: infatti, nel rito si sintetizza la trasmissione di un’esperienza, che non può essere espressa solo attraverso la parola o attraverso gli scritti, ha bisogno di qualcos’altro per manifestarsi. Quel luminoso, come lo definivano gli antichi: quella realtà impalpabile di un’idea, di una divinità, la quale non sempre trova rappresentazione con mezzi convenzionali, allora ecco il rito colmare di significato quel messaggio, che l’esperienza religiosa, civile o familiare vuole conservare. Lo stesso antico popolo d’Israele mutuava riti dalle tradizioni storiche dei popoli circostanti, affidando però a essi un nuovo significato. Un esempio per tutti: la danza del Re Davide dinanzi all’Arca contenente le “Tavole della Legge”,  nel momento in cui essa, dopo la discussione al Tempio, ritorna nuovamente in Gerusalemme.  Davide balla a dorso nudo davanti all’Arca: un gesto a prima vista irriverente, tuttavia pregno di significato, poiché era sua intenzione esprimere attraverso segni di festosità, che tutti potevano intendere, la gioia non solo sua ma quella di un intero popolo, che finalmente faceva ritorno nella sua terra. Il rito agevola la manifestazione di gioia: sottolinea quel fermento, nascosto in un popolo, per un evento che è accaduto. Chi di noi non esprime, con riti familiari e privati, i propri principi?  In questi giorni, passando per Corso Sirena, chi di noi, all’odore del ragù o dei peperoni arrostiti sul fuoco, non ricorda i giorni antichi della propria infanzia? Questi odori ci riportano indietro nel tempo, quando le massaie s’affrettavano a cucinare nei giorni precedenti la festa, proprio per avere un po’ di tempo, la domenica mattina, da dedicare ai Gigli. Questi momenti, perciò, sono parte integrante di quel rito collettivo che prepara la festa, risvegliandone il ricordo, impresso persino nell’olfatto e nelle papille gustative.  Siamo dinanzi a riti che rinnovano il sentimento per la Festa, la quale non è bella giacché c’è il Giglio, semplice simulacro: pure in Piazza del Gesù Nuovo si erige maestosa la Guglia dell’Immacolata, che nella sua struttura architettonica è similare al Giglio, ciò nonostante noi non percepiamo aria di Festa, se ci capita di passeggiare in quella bellissima Piazza. Del resto, dal punto di vista storico, è proprio nel ‘700 che è possibile datare l’origine di queste costruzioni architettoniche (compresi i Gigli, nella forma a noi nota). Attraverso queste imponenti torri, c’era la volontà d’esprimere il desiderio di un contatto con il cielo: tutta la capacità artistica e ingegneristica della mente umana di quell’epoca impiegata nell’intento di raggiungere la vetta. E sulla vetta, imponente, siede l’Immacolata Concezione: perché? Perché non è il simulacro che preannuncia la Festa: il simulacro è soltanto il segno, per cui la Festa dei Gigli è bella non per il Giglio in sé, certamente molto ingegnoso, ma per quello ciò mette in movimento e rievoca, come una forza capace di toccare i sentimenti delle persone. Ogni comunità umana ne è consapevole; la stessa tradizione cristiana, del resto, rilegge, sin dall’antichità, i riti politeisti, inquadrandoli in una prospettiva nuova, inaudita, affinché possano essere ricondotti alla Fede. Per esempio, l’albero di Natale attecchisce in una condizione pagana: si tratta di retaggi folclorici arcaici dell’Europa Settentrionale, inseriti nella tradizione di accendere ceppi per tenere lontani gli spiriti maligni. Oppure, l’istituto festivo dei  pellegrinaggi, che conserva, celato, il desiderio di andare sempre più in alto, di camminare verso il cielo. Del resto i templi, fin dall’antichità, erano collocati su sommità, e per raggiungere le divinità che essi ospitavano, era necessario percorrere una strada irta di difficoltà. In tal modo, il sacrificio diviene partis in causa del rito, assumendo così il significato di  “purificazione” , ancora oggi essenza vitale del pellegrinaggio cristiano. La stessa edificazione di tante imponenti macchine da Festa si veste di questo contenuto: pensiamo al Carro della Madonna della Neve a Ponticelli, (portata a spalla pure lì con grande sacrificio da parte dei cullatori), che svetta sui tetti dei palazzi,  a significare che la Madonna è la regina di tutte le famiglie, di tutte le case. Ancora, la Macchina di Santa Rosa a Viterbo, completamente rivestita di luce, per indicare il fulgore della fede di questa donna, che è luce per tutti coloro che guardano la sua vita. Perfino a Viterbo la macchina, nella sua costruzione, è similare al Giglio, così come similari al Giglio sono i Ceri di Gubbio. Di solito, quando si fa riferimento alla cultura  folclorico- popolare del Meridione, ci s’imbatte nel luogo, troppo comune, di esempi d’arretratezza e di sostrati culturali arcaici, ma sappiamo bene che non è affatto così, poiché anche nel Centro-Nord, e Gubbio è un esempio tangibile, esistono tradizioni popolari molto radicate.

Ma posso ancora citare  il Carro di Santa Rosalia; il Carro di paglia di Mirabella Eclano e il Giglio di Flumeri, tutte macchine costruite per suscitare meraviglia. L’uomo è capace d’innalzarsi fino al cielo, arrivando alla sommità e oltre. È interessante valutare che il Cristianesimo ha posto, sul vertice di queste Macchine da Festa, l’immagine di un Santo: quindi, non la divinità, cioè Dio, ma il Santo, perché? La risposta è molto semplice, il Santo è una sorta di via di mezzo: egli ha raggiunto il Cielo e Dio ha raggiunto l’umanità, così la vita concreta di questi uomini e queste donne, che hanno vissuto nell’ideale cristiano, ne è l’esempio fulgente.  Il  Santo Patrono, in genere, è posto proprio per questo motivo alla sommità, nello slancio dell’uomo che vuole raggiungere Dio: un Dio che non disdegna di essere raggiunto, anzi, un Dio che s’incarna nella natività, perché vuole essere presente in mezzo agli uomini. Il rischio più grave e pericoloso, che noi stiamo rischiando di correre adesso, è quello di dissociare il segno dalla Festa: dissociare, nel nostro caso, il Giglio dal suo originale significato simbolico. Del resto, questo è uno dei mali più grandi che si riscontrano nella Festa: quando il segno non richiama più quei valori che esso racchiudeva, ha inizio il declino. E questo, suppongo, sia accaduto ampiamente. E’ lodevole, allora, lo sforzo dell’Associazione “Lylia”, che sta cercando di recuperare la “forza dei segni”, con quest’attenzione alle radici religiose della Festa. Quando parliamo di Cristianesimo, in genere, ne discutiamo come se si trattasse di una realtà da poco giunta a fare capolino nel contesto umano: ma ricordiamoci sempre che siamo dinanzi a duemila anni di storia. E non certo di una storia scritta a tavolino, ma di un’esperienza episodica radicata in un tessuto sociale, nel quale essa è profondamente implicata. La salvezza è una realtà posta al di sopra della testa degli uomini; è nella vita di quei cristiani, che con serenità si dedicano a un’esistenza vincolata a dei valori, e a dei sacrifici, donati poi al Signore. Oggi, nel mondo, sono ancora tanti ad abitare questa dimensione: la testimonianza di Cristo.  Il mio augurio più grande è che la Festa, nei tempi futuri, si riappropri del senso della fraternità, dell’amicizia e della riconoscenza come buona novella. La Festa dei Gigli nel tempo della vendemmia, nel tempo del  ringraziamento: la Festa dei Gigli quale espressione del vincolo che la lega  a Sant’Antonio da Padova, ai suoi  valori e alla sua vita. Fare di tutta la nostra vita una lode, come il candore del giglio, come la bellezza e la semplicità di quel fiore che è tra le sue mani. Grazie per la vostra attenzione.


















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La Festa dei Gigli: rito e folclore nella forza dei segni: Relatori
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