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MATTEO SPERADDIO - SCRITTORE

Territorio e comunità, nel patrimonio immateriale dei Gigli Barresi.

di Elisabetta Nappo


Sono trascorsi trentanove anni. Quasi il computo di due generazioni. Il convegno, “L’area dei gigli e la festa: forme, processi, dinamiche culturali”, si svolse a Barra, presso l’Auditorium della scuola media “Raffaele Testa”, ora “Francesco Solimena”, il 7 e 8 Novembre, 1981.

Promosso dall’ARCI locale, col patrocinio del Consiglio Circoscrizionale di Barra, la manifestazione culturale fu anticipata da alcuni eventi, quali un’anteprima nazionale del documentario “La festa felice” del regista Gabriele Palmieri, un multivision sulla Festa dei Gigli di Barra a cura del “Nuovo Politecnico” e una mostra di materiali, documenti e proiezioni di audiovisivi sulla Festa dei Gigli.  

Nel corso del convegno, diversi furono gli interventi di personalità del mondo accademico e politico dell’epoca. Docenti universitari, sociologi e storici s’interrogarono sul valore etno-culturale di un istituto festivo – i Gigli Barresi – che, pur avendo una dinamicità antropologica ragguardevole, fino a quel momento non erano mai stati oggetto di studi e di riflessione. Gli atti del convegno sintetizzano una preziosa testimonianza sull’autentico interesse che la Festa dei Gigli di Barra poteva destare nell’entourage intellettuale, se, nel corso degli anni, questa direzione fosse stata percorsa dalle istituzioni locali.

A trentanove anni di distanza da quei giorni di fervido interesse culturale, il nostro “incontro virtuale” per questo tempo sospeso, per questa #FestaSospesa, si lascerà scortare da nuovi linguaggi, che nella ricerca storica e antropologica cercherà di indirizzare il nostro patrimonio immateriale, i Gigli Barresi, verso traguardi epistemologici più grandiosi.


Il Professor Matteo Speraddio s’è laureato in Filosofia alla Federico II (discutendo la sua tesi di laurea con il compianto filosofo Aldo Masullo).

Di origini pugliesi, ha destinato la sua vita all’insegnamento, dedicandosi anche alla progettazione e alla scrittura di libri rivolti al mondo degli adolescenti e della scuola. Attualmente, è caporedattore della Medusa Editrice, che pubblica narrativa e testi scolastici. Negli anni Ottanta, ha partecipato a un progetto giornalistico di rilevanza socio-culturale, che riscosse molto interesse, nella zona di Napoli Est: il mensile “Terminal”.

Nel 1981, in occasione della Festa, firmò un saggio: “Ballano i Gigli”, pubblicato a cura del Consiglio Circoscrizionale di Barra. Il testo, realizzato con lucidità critica e competenza storico-sociologica, rappresenta forse uno dei lavori più significativi e attendibili sulla storia della Festa dei Gigli Barresi.

Grande è la riconoscenza, da parte nostra, per l’intervista concessaci, che rappresenta, per noi, nuova generazione di studiosi della Festa, una via maestra, per un dialogo storico-antropologico di più ampie e coraggiose vedute.


[Bibliografia ragionata]

-De Buocard Francesco, Usi e costumi di Napoli e contorni, Napoli, vol. II 1858,

(I edizione, conservata nella Biblioteca Nazionale di Napoli).

-Izzo A., (a cura di), I Gigli: canzoni e canzonieri. Centro Studi d’Arte “Tresana”, Circoscrizione di Barra, Napoli, 1988.

-Speraddio Matteo, (a cura di), Piedigrotta ‘81 “Ballano i Gigli”, Consiglio Circoscrizionale di Barra, Napoli.

Professor Speraddio, alla luce dei fatti, l’indagine epistemologica dei Gigli Barresi non fonda la sua rilevanza storica su carteggi attendibili, che attestino l’origine della Festa nel nostro quartiere. Lei, in base alle sue ricerche, quale riflessione storiografica proporrebbe, al riguardo di una certa veridicità documentaria?

«Durante i lavori del Convegno, la genesi della Festa è stata oggetto di lunghe discussioni. Io ritengo che una giusta collocazione temporale dell’importazione dei Gigli a Barra, possa essere inquadrata intorno alla metà del XIX secolo, durante il processo di industrializzazione della zona a oriente di Napoli, di San Giovanni a Teduccio in particolare.»


Quale attestazione documentaria ritiene possa essere utile, per un’efficace ricostruzione storica?

«Tra le documentazioni più significative io penso si debba ascrivere una cartolina datata 1903. L’immagine ritrae un Giglio in Piazza De Franchis. Le cartoline illustrate tendevano a riprodurre le immagini più caratteristiche di un territorio (si pensi alla famosa cartolina del panorama di Napoli con il pino in primo piano). Che il quartiere legasse la propria immagine a quella del giglio è molto significativo. Vuol dire che già in quegli anni, all’inizio del Novecento, i Gigli di Barra dovevano avere alle spalle una tradizione storica e culturale ben radicata sul territorio.»

 

«In talune feste dell’anno anche qualche paesello del regno fa le sue piramidi, ma non ne vale la pena parlarne.» Questa nota è tratta da un saggio, scritto da Enrico Cossovich e intitolato “I lazzari e i facchini”, contenuto nel testo di Francesco De Boucard, “Usi e costumi di Napoli e contorni”, la cui prima edizione risalirebbe al 1858. Il Cossovich, nel descrivere i lavoratori del Porto di Napoli, i “San Giuvannari”, riferisce della Festa Nolana, lasciando a margine questa nota. Professor Speraddio, a suo parere, Enrico Cossovich si sta riferendo a Barra?

«Probabilmente sì. In realtà, il dibattito intorno ai “San Giuvannari” è stato molto proficuo per tutti noi, proprio perché consideravamo la figura di questi lavoratori – facchini e operai – l’anello di congiunzione tra i Gigli di Nola e l’importazione della Festa a Barra.»


Secondo quale valutazione storica, eravate convinti di questo?

«Nel corso dei lavori preparatori al Convegno, abbiamo raccolto e registrato su nastro le testimonianze di molti attori della Festa di quegli anni, mettendo insieme un materiale molto interessante. Ricordo, in particolare, la testimonianza di un famoso capoparanza, all’epoca molto anziano (aveva ottantadue anni), che ci ha confermato l’importazione da Nola della Festa barrese.»

 

Si ricorda il nome di questo capoparanza?

«Si chiamava Francesco Mollacco. Ci raccontò di essere stato fin da giovane tra i facchini del Porto di Napoli chiamati a Nola per il trasporto dei Gigli. Diventati esperti della tecnica di trasporto delle macchine da Festa, le avevano portate a Barra. Il signor Mollacco ci raccontò che il Giglio stesso, nel contesto locale, aveva subìto delle modifiche, specie nella tecnica di legatura delle varie casse. Mollacco raccontò di aver alzato il giglio per cinquant’anni con comitati e rioni diversi. Parte di questa intervista si può leggere su Terminal del settembre 1985.»


Che ricordi ha di questo famoso personaggio della Festa Barrese?

«Ci colpì una sua precisazione, che rivelava un tratto della sua personalità. Dal materiale fotografico e dai tanti racconti, veniva fuori che molti “caporali” barresi avevano un modo estremamente estroso e spettacolare di comandare l’alzata del giglio. All’epoca era ancora vivissimo il ricordo del “Sardone”. Chiedemmo a Mollacco quale fosse la sua opinione al riguardo e ci sentimmo rispondere che lui il Giglio lo aveva sempre comandato “serio”.»


I Gigli “arrivano” a Barra. E poi che succede?

«Al contrario di quella eponima di Nola, la Festa Barrese non ha una matrice contadina. Il processo di industrializzazione allora in atto nella zona a oriente della città di Napoli fornì alla festa un background sociale inedito, che ne modificò i riferimenti antropologici.

A Nola, il tessuto comunitario inquadra la Festa in un contesto culturale che la lega alle corporazioni, alla leggenda di San Paolino e al territorio. A Barra, questo era impossibile, perché la festa impattava con una stratificazione sociale di tipo urbano, in cui la presenza artigianale e operaia, anche se non maggioritaria, era fonte di dinamismo sociale ed economico. Importare la festa era possibile, ma riproporla integralmente, riproponendo anche il sostrato religioso e mitologico, era impossibile e artificioso. La festa non avrebbe retto nel tempo. Era necessario legarla all’immaginario culturale del Comune, che poi sarebbe diventato uno dei quartieri della metropoli napoletana. Per esempio, un elemento che stranamente viene poco sottolineato è il riferimento costante alla festa di Piedigrotta: sui volantini delle canzoni dei vari comitati c’è spessissimo, ancora oggi, la dicitura “Piedigrotta barrese”. Piedigrotta era evidentemente un’esperienza festiva comune a molti barresi, che tendevano a trasporne le modalità nella festa dei gigli. Da notare che anche la festa di Piedigrotta si svolge nel mese di settembre.»


Sacralità e laicità, verso quale piatto pende la bilancia della Festa Barrese?

«Impiantare, ex novo, un istituto festivo da una comunità a un’altra richiede un compromesso su quali elementi conservare e quali no.

È evidente che gli appassionati della festa a Barra – non solo facchini, ma anche parolieri, musicisti, capiparanza, caporali e i tanti componenti dei comitati – avevano sempre presente la festa di Nola e avrebbero voluto emularla, conservandone anche le caratteristiche religiose. Da qui il tentativo di legare la festa a un santo popolarissimo come Sant’Antonio, a cui è dedicata una delle chiese lungo il tracciato viario più antico di Barra, quello di Corso Sirena. C’è, quindi, sempre una tensione tra duplicazione/conservazione e innovazione/adattamento: si prende un elemento o lo si adatta alla situazione locale. Sant’Antonio era sicuramente più vicino alla religiosità popolare dei barresi di quanto non fosse San Paolino. Vorrei segnalare anche la presenza di un elemento di autentico spirito cristiano, che ritorna in molte testimonianze: sembra che fino agli anni Settanta, la vigilia o l’antivigilia della festa, un carretto trainato da un umile asinello passasse per la strade del quartiere per raccogliere offerte, perché anche i poveri potessero festeggiare a tavola con parenti e amici. Questo elemento religioso e cristianizzante, già marginale negli anni Ottanta, è diventato sempre più flebile nei decenni successivi, fin quasi a scomparire. Un riflesso del processo di secolarizzazione molto più spinto in un ambiente urbano come quello barrese, che respira “l’aria” della grande metropoli, anche se ne occupa la parte più estrema, spesso marginale.»


Ci dà qualche altro elemento di questa tensione tra duplicazione/conservazione e innovazione/adattamento?

«L’organizzazione della festa per rioni, che apparentemente riprende l’organizzazione per corporazioni della festa nolana. Anche qui si nota che la semplice trasposizione della festa nolana era impossibile, perché la composizione sociale di un comune o di un quartiere suburbano è molto varia e stratificata, molto più dinamica, molto più aperta al nuovo. Il richiamo tradizionale a una corporazione di ascendenza tardomedievale ai barresi non diceva niente. Il richiamo ai rioni era, invece, un fatto vivo e metteva in gioco anche tensioni tradizionali, come quelle tra Barra maggiore e Barra minore. L’organizzazione per rioni era feconda anche perché favoriva l’emergere di fenomeni identificativi sempre nuovi, come quello del Comitato Marciapiede, che si richiama all’unico tratto in cui all’epoca era presente il marciapiede a Corso Sirena. Questa tensione tra imitazione e innovazione è presente anche nella tecnica di trasporto (cullata/ballata), nella trasformazione della componente musicale (composizione delle bande, strumenti, scelta di nuovi ritmi) e poetica (tematiche delle canzoni). I barresi sono consapevoli che la festa originaria è quella di Nola, ma sono orgogliosamente convinti che la festa di Barra è altrettanto bella e… perfino originale.»


Trentanove anni fa, il Convegno promosso dall’ARCI di Barra, col Patrocinio dell’allora Consiglio Circoscrizionale, “L’area dei gigli e la festa: forme, processi, dinamiche culturali”. Quale intento culturale mosse i vostri passi?

«Il nostro impegno fu sollecitato da un’emergenza: il terremoto del novembre 1980 aveva imposto degli interventi di consolidamento di molti palazzi danneggiati dal sisma. Lungo il tracciato viario tradizionalmente percorso dai gigli si erano create interruzioni e strozzature e c’era il pericolo concreto che l’edizione della festa del 1981 saltasse. Questa evenienza nel quartiere veniva vissuto come una grave perdita culturale. Il Presidente dell’ARCI, Giuseppe Caiazza, e Raffaele Langella, uno dei dirigenti del Partito comunista locale più attento alle esigenze del quartiere, ebbero l’intuizione di mettere insieme i comitati per fare pressione sul Comune di Napoli, perché intervenisse per risolvere il problema. Contemporaneamente, l’ARCI si impegnò anche per valorizzare il patrimonio storico e culturale della Festa. Da qui l’idea di un convegno. Per prepararlo, intervistammo molti protagonisti della festa e cercammo di raccogliere materiale cartaceo e fotografico.»


Che tipo di accoglienza aveste dalle persone, in questa vostra iniziativa?

«Inizialmente, di diffidenza. Quando ci recavamo nelle loro case, erano molto guardinghi e gelosi dei materiali che ci mostravano (e di certo il mio accento pugliese non era d’aiuto). Tuttavia, col trascorrere del tempo, furono ben felici di affidare, alla nostra cura la loro eredità festiva.

Dopo il convegno, quando siamo ritornati per restituire loro il materiale che ci avevano prestato, ci accolsero addirittura con affetto e con una nuova disponibilità. In realtà, eravamo noi a essere loro grati perché avevamo incominciato a conoscere i Gigli dalle loro storie e molti dei personaggi storici della Festa li avevamo conosciuti dai loro racconti.»


Cuore pulsante del vostro impegno di quegli anni fu l’ARCI, un’istituzione storica fondata alla fine degli anni Sessanta, principalmente su ideali antifascisti. Che ruolo sarebbe possibile attribuire alla presenza, sul territorio barrese, quartiere sostanzialmente operaio, di istituzioni politiche e culturali, espressione di un clima sociale decisamente di sinistra?

«C’è prima di tutto da sottolineare un unicum nella storia della festa barrese, l’intento di contribuire alla salvaguardia di un’espressione culturale come la Festa dei Gigli, da parte di una realtà associativa diversa da quella tradizionale espressa dai diversi comitati, l’ARCI appunto. La nostra credibilità di gruppo partiva da qui, dalla presenza culturale dell’associazione, che si esprimeva anche in ambito sportivo con Olimpia ’71. Io ho origini pugliesi e sono venuto ad abitare a Barra nel 1977. Ho sposato una ragazza barrese e ho costruito la mia vita familiare e professionale, radicandola in questo quartiere. Operando nell’ARCI, ho potuto conoscere tutti gli aspetti politico-culturali di una realtà territoriale operaia, che fondava la sua dignità comunitaria nel lavoro di fabbrica, e nell’impegno sociale. Sottolineare che Barra fosse, in quegli anni, un quartiere operaio è importante, perché spesso si pensa a Barra come a un quartiere sottoproletario. La festa favorisce questa lettura perché, a prima vista, proprio sul proletariato sembra insistere il substrato sociale della festa. Sarebbe importante riuscire a decifrare, dal punto di vista storico, che cosa è accaduto a partire dagli ultimi due decenni del Novecento, quando la componente operaia e piccolo borghese del quartiere si è contratta sempre di più.»


Una storia politico-sociale che produrrà i suoi effetti anche sulla Festa dei Gigli, chiaramente.

«Una Festa, quale patrimonio immateriale di una comunità, riflette, necessariamente, le vicissitudini storico-politiche di un territorio. Bisogna sempre tenere presente questo aspetto se s’intende procedere verso un percorso di tutela e di valorizzazione culturale della festa.»


Professore, si potrebbe affermare, con onestà intellettuale, che dal punto di vista socio-culturale, il decadimento della Festa dei Gigli di Barra possa aver coinciso con gli anni della Ricostruzione post terremoto?

«Direi di sì; anche se io partirei dal decennio precedente. Già durante gli anni Settanta, si concretò una sorta di pianificazione economica, sostenuta dalla DC e dal Partito Socialista Italiano, che prevedeva lo smantellamento della “zona Industriale” per puntare allo sviluppo del terziario. Fulcro di questo progetto era la realizzazione del Centro direzionale, che fu progettato proprio negli anni Settanta anche se fu realizzato, e solo in parte, molti anni dopo. Certo, oggi è chiaro che era paradossale pensare a uno sviluppo del terziario, impoverendo la già esile base produttiva di tipo industriale. Invece, s’innescò un processo spinto di deindustrializzazione, che portò alla scomparsa di molte piccole e medio imprese, alcune anche molto avanzate come la Vetromeccanica. La lotta sociale diventò aspra – ci furono scioperi, manifestazioni, occupazioni di fabbriche – ma il processo di deindustrializzazione non cessò. La classe operaia e i partiti di sinistra subirono una grave sconfitta. Ci furono molti prepensionamenti e molti licenziamenti: gli ex operai scivolarono così nell’assistenza o nella disoccupazione. La fisionomia sociale del quartiere cominciò a cambiare velocemente, anche perché, nel contempo, si è registrato un trasferimento di molti professionisti dal nostro territorio verso i Comuni limitrofi (San Giorgio, Portici, Cercola…). Ciò ha provocato un depauperamento del tessuto comunitario del nostro quartiere.»


Depauperamento che ha riguardato altresì l’aspetto politico.

«Fino agli inizi degli anni Ottanta, fare politica era un’attività sociale, che molti svolgevano con passione. L’esperienza di partito era totalizzante: gli interessi potevano spaziare entro svariati ambiti, ma il risvolto più evidente era una vivacità intellettuale di ampio respiro e la sensazione di appartenere a una comunità più ampia di quella locale. Allora i partiti svolgevano ancora una funzione di raccordo democratico tra cittadini e istituzioni e, in senso lato, anche una funzione educativa in direzione di una cittadinanza attiva. Vicissitudini storiche e politiche (basti pensare allo tsunami di Tangentopoli, all’inizio degli anni Novanta) hanno sovvertito questa situazione, che ha finito per sconvolgere anche l’assetto socio-culturale del quartiere. Questo però non riguarda solo Barra, ma tutta la comunità nazionale.»


Un quartiere che comincia a cambiare volto.

«La Ricostruzione post-terremoto s’è rivelata una sorta di spartiacque, perché ha creato molte illusioni (la pioggia di denaro sembrava destinata a risolvere gli annosi problema del sottosviluppo) seguite da cocenti disillusioni. Gli interventi operati nel corso del decennio successivo al sisma hanno sprecato un fiume di denaro pubblico, influendo spesso negativamente sullo sviluppo di Napoli. Bisognava puntare, in primis, su un alleggerimento demografico della città e della provincia di Napoli, ma si è fatto esattamente il contrario. Prendiamo ad esempio la Zona Orientale, vittima di un’inflazione demografica senza precedenti (sessantamila abitanti in più), che ne ha sconvolto gli equilibri sociali. Non a caso, ad oggi, la VI Municipalità del Comune di Napoli è la più popolosa di tutta la cinta urbana.»


Nel riassumere il quadro socio-culturale degli anni post-terremoto, quindi non sarebbe errato individuare una precisa contraddizione sociologica: se da un lato si assiste a miglioramento urbanistico del territorio (parchi pubblici, strutture sportive, nuovi assi viari), dall’altro bisogna registrare uno scollamento sociale.

«Certo, poiché una convergenza verso un dato territorio di individui provenienti da contesti sociali ed urbanistici differenti, innesca meccanismi di estraneità e di diffidenza che solo dopo molti anni tenderanno a scomparire per dar vita a un nuovo equilibrio. Noi stiamo vivendo ancora questa lunga fase di assestamento. Siamo dinanzi a fenomeni di carattere sociologico che necessitano di tempo per manifestarsi a pieno.»

 

Esistono dei vettori sociali che potrebbero accelerare questi fenomeni?

«Sicuramente. Per esempio, servirebbe un nuovo protagonismo delle associazioni locali, arricchite anche dalla presenza di professionisti che investano tempo e passione sul territorio, per esempio. La questione però è che tanti liberi professionisti hanno lasciato i nostri quartieri, spostandosi verso aree suburbane della città di Napoli. La scelta mia e di mia moglie di restare a Barra, investendo il nostro impegno civile nell’insegnamento, è stata minoritaria. La maggior parte delle persone con cui avevamo condiviso esperienze sociali e politiche negli anni Ottanta, è andata via dal quartiere.»


Dall’inizio degli anni Ottanta ad oggi, il quadro socio-culturale dei Gigli Barresi è letteralmente imploso. È mutata la comunità e di contro è mutata la Festa.

«La Festa dei Gigli di Barra ha da sempre manifestato una grande dinamicità e una grande apertura all’attualità (per rendersene conto, basta guardare ai temi delle canzoni dei gigli). E se, in teoria, il dinamismo si manifesta comunque quale elemento positivo, nei fatti, è necessario che conservi un senso di marcia preciso. Negli anni in cui noi ci siamo occupati degli aspetti socio-culturali della Festa, ancora massiccia la presenza di professionisti appassionati, che facevano parte dei Comitati. Del resto, è interessante osservare quante idee, in quegli anni, provenissero dalla periferia, fervente fucina giovanile, spesso impegnata in battaglie civili intorno a tematiche di rilevanza cittadina. La Festa di quei decenni, cartina tornasole della società in cui essa si svolgeva, rifletteva tutto questo.»


La realtà attuale è ben diversa.

«Il punto dolente riguarda la scarsa attenzione per la festa. Io ricordo quanto fosse vivido l’interesse della professoressa Amalia Signorelli, allora docente alla “Sapienza” e relatrice del nostro convegno. Sentire che la Festa dei Gigli di Barra destasse curiosità e attenzione anche nell’ambiente accademico riempiva di orgoglio i cittadini barresi e accresceva la loro consapevolezza sullo spessore culturale della festa. Bisognerebbe riavvicinare le persone alla “cultura” festiva. Per esempio, investire in progetti che facciano ripartire l’artigianato gravitante intorno ai Gigli, come la miniatura degli obelischi, da sempre frutto di una cultura operaia; valorizzare le competenze musicali diffuse, stimolare la produzione poetica legata alle canzoni del giglio. Per questo sarebbe necessaria una maggiore osmosi con la scuola. »


Professor Speraddio, quale futuro per questa nostra #FestaSospesa?

«Per sua natura, una sospensione temporale può anche concretarsi in un proficuo momento di riflessione. Io sono un ottimista al riguardo, considerando piccoli segnali di ripresa che si stanno manifestando un po’ in tutta la zona orientale. Ne cito alcuni: il polo universitario a San Giovanni, la persistente vitalità dell’ARCI movie di Ponticelli, l’esperienza degli orti sociali sempre a Ponticelli… Dal punto di vista urbanistico, diversi sono i luoghi che potrebbero divenire aggreganti per la comunità. Ritornare a parlare di storia e cultura della festa potrebbe servire per valorizzarla, ma anche per ritrovare l’orgoglio di vivere e operare in questo quartiere.»

Prof. Matteo Speraddio: Programma
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