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PROF. MATTEO SPERADDIO

Scrittore

Di origini pugliesi, il Professor Matteo Speraddio ha destinato la sua vita all'insegnamento, dedicandosi anche alla progettazione e alla scrittura di libri rivolti al mondo degli adolescenti e della scuola. Attualmente, è caporedattore della Medusa Editrice, che pubblica narrativa e testi scolastici. Nel 1981, in occasione della Festa, firmò il saggio: "Ballano i Gigli", pubblicato a cura del Consiglio Circoscrizionale di Barra. Il testo, realizzato con lucidità critica e competenza storico-sociologica, rappresenta forse uno dei lavori più significativi e attendibili sulla storia della Festa dei Gigli Barresi.

Ai fini del percorso culturale, che ci siamo prefissi di percorrere con questo nostro convegno virtuale, riportiamo, di seguito, il testo integrale del saggio citato.

Piedigrotta '81.  "Ballano i Gigli".

di Matteo Speraddio

A distanza di cinquant’anni i gigli di Barra tornano a danzare a Napoli, a via Caracciolo. L’evento si ripete in una città profondamente mutata, segnata da una crisi ormai secolare, “scossa” nei suoi precari equilibri sociali del terremoto. L’evento si ripete tuttavia con una valenza politico-culturale rovesciata: allora (Piedigrotta 1931) il tentativo da parte della metropoli, all’indomani dell’annessione del 1927, di inglobare le differenze e di imporre i propri schemi culturali; oggi, all’indomani del nuovo decentramento amministrativo, la partecipazione alla Piedigrotta 1981 come contributo del quartiere Barra alla manifestazione cittadina. Si fa strada, nel rapporto città-periferia, l’ipotesi di una nuova dialettica politico-culturale fondata sullo scambio e sul rispetto delle autonomie e delle differenze. Non più il movimento unidirezionale città-periferia, ma lo scambio circolare. Simbolicamente, davanti alla grotta, già luogo di riti misterici e orgiastici e ora sede di un traffico spesso impazzito, la presenza dei gigli di Barra ripropone alla città l’eccesso liberante della festa, la festa come follia. La “cullata” dei gigli a via Caracciolo rischia, tuttavia, di rendere difficile o addirittura fuorviante la comprensione di un fenomeno complesso quale la festa dei gigli di Barra, quasi fosse possibile ricreare temporalmente e aspazialmente, cioè sempre e dovunque- secondo uno schema usuale ai mass media e all’industria del tempo libero –le condizioni di fruizione autentica, cioè coinvolgente, della festa. La presenza dei gigli avulsa da quell’humus culturale fatto di ricordi, di attesa dell’evento che si ripete annualmente, di atteggiamenti e comportamenti usuali ma sempre rinnovati, sostenuti da una tradizione non antica ma radicata, rischia di porre al centro dell’attenzione il “giglio” come fulcro della festa favorendo una lettura distorta del tipo: dove c’è il giglio si ricrea la festa. Il giglio come oggetto di consumo culturale. È il rischio sotteso all’allargamento dell’area della festa dei gigli. Non solo più a Nola, a Barra, a Brusciano, ma a Ponticelli, San Giovanni, Arzano…Un rischio che può essere giocato con un esito culturale positivo forse proprio ripensando l’esperienza barrese come proposta di modello culturale.

A Barra il giglio importato da Nola, si è sposato felicemente con il quartiere stimolando le potenzialità creative di musicisti, parolieri e “fantasisti” di quella particolare tecnica del trasporto che è la “ballata” o la “cullata” del giglio. Con la festa di Barra si è creata una dialettica culturale profonda con l’hinterland nolano: un rapporto culturale di scambio fatto di accoglimenti e di proposte, di differenze e affinità, di tenaci agonismi e cavallereschi riconoscimenti. Al di là di una polemica non sempre sotterranea su una primogenitura, d’altronde non contestata, della festa di Nola rispetto a quella di Barra, l’instaurazione di un rapporto culturale di scambio reale tra area cittadina e agro nolano ha portato a un arricchimento, a una “ricreazione” della festa nolana che risulterebbe anch’essa impoverita se vivesse solo in uno splendido isolamento. A Barra i gigli, rimosso il riferimento religioso così tenue da sembrare assente, posto in secondo piano l’elemento arcaico del simbolo fallico legato a persistenze di espressioni religiose precristiane, ballano splendidamente con il popolo di Barra che ha espresso una “capacità di fare festa” originale e vitale, aperta agli accoglimenti ma reinterpretandoli e coniugandoli con la propria struttura sociale. A Barra il fulcro della festa non è il giglio, ma il giglio che balla, è il giglio nella sua ultima evoluzione di macchina meravigliosa capace di ballare insieme alle masse. Il centro della festa è la comunità festante, che gioca con i gigli, si mette in gioco ed è giocata dalla festa. Alla festa dei gigli come fenomeno culturale appartiene ormai legittimamente così come la magia nolana come la follia barrese. C’è un eccesso nella festa di Barra che si manifesta anche nei ricordi. La tendenza ad esagerare quando si parla della festa rende difficile l’uso della ricca tradizione orale per dare una risposta su quando è nata la festa, sul perché è nata e perfino su come si è sviluppata. Certo ha una storia ed è affollata di ricordi. Una storia secolare? Quasi secolare? Sicuramente una storia che ci permette di collocare la genesi della festa dei gigli in una Barra con un volto profondamente diverso da quello attuale. Una città, un municipio, prevalentemente agricola, con una struttura urbanistica disegnata sui casali, legata alla metropoli da una contiguità fisica ma anche attraverso le ville dei signori che amavano svernare in questa contrada amenissima (Tresana), con i primi insediamenti industriali con fasce di sottoproletariato, i Lazzari, che fuggivano dalla metropoli che, deceduta da capitale, non poteva più sostenere con mance ed assistenza i propri Lumpen. Barra era, insomma, abbastanza sostanziata di cultura contadina per non sentire vicina la sensibilità pagana che si esprimeva nell’orgiastica festa di Nola; abbastanza vicina alla città per non riconoscere nel giglio, non più ornato di fiori e foglie, ma “vestito” di cartapesta, la tipica, familiare struttura dell’obelisco barocco napoletano (P.za del Gesù, p.za S. Gaetano); abbastanza toccata dalla cultura della fabbrica per non essere affascinata dalle potenzialità dinamiche della “macchina” giglio.  È possibile rintracciare nella storia di Barra e nella sua struttura sociale i motivi profondi che rendevano possibile l’accoglimento di un prodotto culturale nato e sviluppatosi in un contesto contadino e, insieme, le ragioni che ne rendevano possibile e inevitabile una “esecuzione” diversa. L’organizzazione della festa, che si svolge nell’arco di un anno, non è incentrata come a Nola sull’immobilità delle corporazioni, ma sul tessuto mobile e variegato degli insediamenti rionali. La coesione dei comitati non gioca intorno ai mestieri, ma intorno ai rioni, fondandosi sulla eguaglianza minima, basale, quella dei cittadini. La festa di Barra non gioca ritualmente con l’incontro-scontro di corporazioni chiuse, ma con l’elemento municipale che si diverte a scomporre e ricomporre pudicamente. I Barresi mettono in gioco la loro disomogeneità sociale, le differenze, la diversità esprimendosi con l’eccesso, con la rivalità dei rioni, con l’agonismo di paranze parolieri e musicanti, con la follia collettiva. Una follia collettiva basata su una partecipazione viscerale e smodata alla festa, ma anche su motivi economico-culturali. I gigli a Barra sono di tutti perché non si fondano sulle contribuzioni di ricci cittadini o di signori delle corporazioni, ma sulle contribuzioni minime, spesso rateali, dei cittadini. La festa non viene “donata” al popoli ma è costruita dal popolo. Ciò ha creato una particolare struttura economica della festa: una sorta di mercato del lavoro, un’economia circolare senza sprechi, in cui le contribuzioni individuali si redistribuiscono all’interno del quartiere: ai giglianti, ai capi paranza, ai caporali, ai parolieri, ai musicanti, agli esercenti del commercio. Questa aderenza della festa di barra alla struttura economica e sociale del quartiere si ritrova anche nella produttività e creatività che si esprimono intorno alla festa. A Barra non si è mai posto il problema della produzione dei gigli; ciò che ha stimolato invece la creatività dei barresi è stata la tecnica di trasporto dei gigli e la produzione musicale, rilevante sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo. A Barra troviamo veri e propri “fantasisti” della tecnica dell’alzata del giglio che danno interpretazioni originali, vere esecuzioni individualizzate, dalla gestualità tipica del comando dei gigli e che si esaltano, insieme con le paranze, nella ricerca di momenti di drammatizzazione, come nella “penetrazione” dello strettissimo vico di S. Lucia. Agonismo ed eccesso che si esprimono anche in una produzione musicale caratterizzata da una sonorità eccessiva e smodata, da ritmi travolgenti e coinvolgenti e da testi che, senza restare estranei alla piena dei sentimenti della canzone napoletana tradizionale, trovano la loro peculiarità nella botta e risposta, nella presa in giro, nella sottolineatura dei tic della comunità. Questo spirito caustico, spesso corrosivo, non di rado intriso di una volgarità furbesca e ammiccante, investe i temi più svariati fino a diventare una delle modalità espressive generali della canzone dei gigli . Famoso, a questo riguardo è il trittico di canzoni “Barra Maggiore”, “I punti cardinali”, “Comm’è maggiore”, tipico esempio di scherzosa polemica rionale intorno a cui ha ruotato la festa nel triennio 1919-1921 per stabilire quale parte di Barra fosse “maggiore”. È questa vitalità, questa ricerca fantasiosa di nuovi modi espressivi che fa della festa di Barra un’originale fenomeno culturale: una festa “aperta”, ricca più di attenzione al nuovo che di fedeltà alla tradizione, sospesa nel rischio continuo di una degenerazione o di una rigenerazione. Per questo il ritorno, dopo cinquant’anni dei gigli di Barra nella festa cittadina di Piedigrotta diventa anche un atto “politico” nella misura in cui esprime un progetto un cammino verso la “polis”, cioè verso la città, luogo della cultura ulteriore, luogo delle differenze. Al di là dello status-symbol del giglio, che è nato a Nola e appartiene a tutta la Campania, la festa ripresenta nella via maestra e principesca di Napoli il suo aspetto popolare, acquisito nel quartiere di Barra. L’invito dell’Amministrazione Comunale di Napoli rivela che, forse inconsciamente, di fronte al pericolo dell’industrializzazione della festa e della perdita di identità, la “città” ha compreso che in tutti i casi, se proprio si vuole parlare di tradizione popolare, questa concerne il popolo unicamente per la sua trasmissione  e non certo per la sua origine, il popolo come soggetto attuale di creazione culturale e non passivo custode di tradizioni diventate spettacolo. Barra, già posta tra città e campagna, privata della municipalità, esposta all’influsso omogeneizzante della metropoli, si è trovata di fronte al pericolo della perdita della propria identità culturale. Si è fatta allora spettacolo a se stessa “ricreando” una festa in cui non c’è quasi soluzione di continuità tra spettatori e attori ricreando ludicamente le condizioni della comunità, della societas. La festa dei gigli fornisce come spettacolo gli stessi spettatori, fa diventare attori loro stessi. La festa come specchio della società in cui ciascuno vede negli altri se stesso ritrovando i motivi della propria socialità: in questo Rousseau vedeva l’essenza della festa come base del contratto sociale.

Prof. Matteo Speraddio: Relatori
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